Lavoro, socialità, spazi: ripensare la normalità

 

Premessa

Per una nuova etica del lavoro

Il lavoro è politica
La crisi del lavoro
Le esternalità del lavoro
Cambiare il lavoro
Collaborazione, cooperazione, responsabilizzazione
Due parole sul lavoro intellettuale

Architettura e spazi pubblici

L’architettura è politica
La crisi dello spazio pubblico
Riprendersi lo spazio pubblico
Salute, ambiente, beni comuni
Due parole sull’architettura

 


 

Premessa

 

Terminata l’emergenza, si dovrà tornare a una nuova normalità. L’impressione è di essere davanti a uno spartiacque storico, che potrebbe permetterci di ripensare i rapporti tra le persone, l’economia e il lavoro.

La paura è che si vada a recuperare una quotidianità ingiusta da un punto di vista economico, insostenibile da un punto di vista ambientale e frammentata da un punto di vista sociale.

La nostra riflessione inevitabilmente parte dal lavoro: la professione di architetto ci mette davanti a molte contraddizioni sociali e politiche. Abbiamo una prospettiva privilegiata sulla realtà che viviamo; come tutti i punti di vista però, anche il nostro è parziale e può facilmente portare a interpretazioni distorte o autoreferenziali.

Considerarsi superiori agli altri è esattamente il modo per rendere inutile ogni analisi e disinnescare qualsiasi possibilità di azione sulla realtà.

 

Per una nuova etica del lavoro

 

 

Il lavoro è politica

 

Il lavoro spesso ci plasma più di quanto noi non riusciamo a plasmare il lavoro; e più il rapporto è sbilanciato, più ne usciamo disorientati. Il lavoro è politica: tutti i lavori lo sono, perché determinano i rapporti all’interno di una comunità.

 

La crisi del lavoro

 

Il lavoro ha perso la sua dignità: il lavoro manuale è malvisto; il lavoro intellettuale è deriso, come un esercizio di stile fine a se stesso. Un’antitesi che non rende giustizia a nessuno, tanto meno a chi si ritrova a metà strada. L’operaio esegue un lavoro standardizzato, in cui la fantasia è disincentivata; il creativo, complice il suo stesso snobismo, è incapace di rapportarsi con la realtà che dovrebbe costruire.

 

Le esternalità del lavoro

 

Come professionisti, possiamo proporre soluzioni che abbiano esternalità positive, ma la loro attuazione è spesso frenata dalla volontà del committente di minimizzare i costi. Finché non sarà economicamente conveniente, ogni possibile cambiamento dipenderà dalla sensibilità di chi paga.

 

Cambiare il lavoro

 

Un’etica del lavoro attenta all’ambiente, ai diritti di chi lavora e all’impatto sulla comunità di riferimento conviene già nel lungo periodo. Perché lo sia nel breve servono:

  • Una consapevolezza diffusa dell’impatto sociale, così da incentivare comportamenti virtuosi; 
  • Una quantificazione economica di queste esternalità, così da introdurre meccanismi di premialità;
  • Un monitoraggio severo da parte delle istituzioni e nuove normative in termini di diritto del lavoro e dell’ambiente.

Nessuno può cambiare il mondo da solo, ma è la somma dei nostri comportamenti che determina la realtà: provare a cambiare il piccolo ecosistema di cui facciamo parte è l’unico modo che abbiamo per intervenire sull’esistente.

 

Collaborazione, cooperazione, responsabilizzazione

 

Il lavoro è uno spazio sacro, dove esprimiamo e arricchiamo noi stessi: forgia il nostro carattere, ci abitua alla fatica, ci educa alla relazione.

Società e lavoro hanno da tempo sposato un modello verticistico pieno di contraddizioni: siamo in una situazione di stress continuo, viviamo come frustranti i compiti che ci impongono ma cerchiamo a nostra volta di imporli a chi sta sotto. Questo meccanismo perverso ha conseguenze disastrose per il nostro modo di lavorare e soprattutto di stare con gli altri.

L’unica alternativa è immaginare scenari differenti: il lavoro può essere un mezzo per ritrovare spazi di socialità assenti in altre sfere del quotidiano. Potremmo anche amare il nostro lavoro, se sviluppassimo una cultura della responsabilità e della fiducia basata sulla reciprocità.

Un cittadino è tanto più attento alla cosa pubblica quanto più è coinvolto nelle decisioni. Lo stesso accade nel lavoro: quanto più un progetto ci stimola, tanto più avremo voglia di migliorarlo. La libertà di sbagliare e l’approccio critico all’esistente sono delle conquiste individuali e collettive, e dobbiamo iniziare a percepirle come un prezioso valore aggiunto.

Coinvolgere le persone apre scenari inimmaginabili: in tutti i lavori, dare spazio alla creatività è l’unico modo per produrre un valore aggiunto unico e non replicabile da nessun sistema di automatizzazione seriale.

Stiamo perdendo la passione per i lavori che facciamo. E se il gioco fosse la chiave per essere più efficienti, coniugando l’efficienza che ci chiedono e il divertimento che ci serve?

Stiamo perdendo la passione per i lavori che facciamo. E se il gioco fosse la chiave per essere più efficienti, coniugando l’efficienza che ci chiedono e il divertimento che ci serve?

 

Due parole sul lavoro intellettuale

 

Web e talent show ci hanno convinto di poter imparare tutto in pochi minuti e di poter giudicare qualsiasi cosa: ogni giorno ci improvvisiamo urbanisti, virologi, allenatori. I professionisti sbagliano continuamente, ma lo fanno forti del loro bagaglio di conoscenze: ogni giorno (noi in primis!) lo dimentichiamo.

Come lavoratori paghiamo quel pressapochismo becero che dimostriamo come cittadini, per poi uscirne frustrati; ed è tutta colpa nostra.

 

Architettura e spazi pubblici

 

Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono solo scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi.

Italo Calvino, Le Città Invisibili

L’architettura dovrebbe essere promotrice di socialità e di vita; rendere abitabili spazi di incontro e di confronto; costruire il cittadino insieme alla città che abita.

 

L’architettura è politica

 

Ci interroghiamo spesso sul ruolo civile della nostra professione: l’architetto può essere anche un operatore culturale. Lo spazio pubblico, come avviene per quello privato, deve essere plasmato sulle reali necessità di chi lo vive: gli spazi sono di chi li abita. Mettere la persona al centro del progetto significa stimolare un’interazione vissuta con lo spazio e accentuarne il valore comunitario.

 

La crisi dello spazio pubblico

 

Sulla mutazione delle città si è scritto fin troppo. Il dato principale è che non viviamo più gli spazi pubblici: contemplatori anestetizzati di ambienti asettici, ci accorgiamo solo dell’eccezionalità e ignoriamo la quotidianità in cui siamo immersi. Nessun coinvolgimento nell’amministrazione dello spazio, nessun rapporto affettivo, nessuna memoria condivisa; il ricordo personale non sfocia mai in un’azione collettiva, sia essa difesa o miglioramento dell’esistente. 

Se uno spazio non è progettato per il coinvolgimento attivo di chi lo vive, finirà per non avere un’anima. E nel frattempo ci svuoterà della nostra personalità: come possiamo sviluppare il nostro senso critico se non abbiamo uno spazio per esercitarlo?

Più le persone sono sole, più sarà facile amministrarle come cittadini e assecondarle come consumatori.
Ma è questo che vogliamo?

Una foto scattata a Campotosto dopo il terremoto che distrusse Amatrice.

Una foto scattata a Campotosto dopo il terremoto che distrusse Amatrice.

 

Riprendersi lo spazio pubblico

 

Qualsiasi luogo può essere interpretato attraverso emozioni, ricordi, affetti:
quando si crea una lettura affettiva condivisa il luogo diventa spazio comune. Recuperare questo valore intangibile, costituito da storie, esigenze e legami personali, significa renderlo unico; il compito del progettista è ascoltare queste voci e produrre una realtà su misura per loro.

Dobbiamo poter plasmare gli spazi per evitare di esserne solo plasmati: uno spazio uguale a mille altri non renderà più felici i suoi abitanti; li farà sentire solo più soli, omologati e infelici. Viceversa, se uno spazio è conseguenza di un percorso condiviso, i fruitori lo sentiranno proprio e lo tratteranno con un rispetto e un amore inimmaginabili.

Coinvolgere i fruitori di uno spazio nel processo decisionale relativo al suo futuro non solo legittima il lavoro fatto, ma aumenta i legami affettivi interni alla comunità che lo abita.

 

Salute, ambiente, beni comuni

 

La salute e l’ambiente sono beni comuni, anche se non sono effettivamente percepiti come tali. L’esperienza del Corona Virus ci sta dimostrando come siano stati trascurati, e come il comportamento del singolo abbia un’esternalità evidente per la salute della comunità.

L’architettura può essere uno strumento per sviluppare questa riflessione: tanto più la gestione degli spazi risentirà di limiti sanitari, quanto più dovremmo ribadire il carattere pubblico degli ambienti che viviamo: solo così possiamo sviluppare un senso di comunità altrimenti destinato a perdersi.

Il Coronavirus porterà enormi stravolgimenti sociali, politici ed economici: siamo davanti a un cambio di paradigma che coinvolgerà il nostro modo di vivere, di lavorare, di stare insieme agli altri. L’organizzazione degli spazi giocherà una funzione decisiva nell’indirizzare questi comportamenti verso l’individualismo o la condivisione; la speculazione o la sostenibilità; il disinteresse o la cura reciproca.

In una società in continuo cambiamento, occorrerà riflettere sulla necessità di spazi mutevoli, polivalenti e capaci di adattarsi. L’architettura è fatta per chi vive la realtà, e può assecondare o stravolgere l’idea stessa di cittadinanza.

L’unica cosa che non può fare è rimanere indifferente.

 

Due parole sull’architettura

 

L’architettura ha cessato di essere una forza creatrice quando ha smesso di fare domande: da forza eversiva è diventata rappresentazione plastica di una società pacificata. Abbiamo iniziato a prenderci troppo sul serio; abbiamo replicato vecchi schemi anziché sperimentare nuove strade; soprattutto, abbiamo smesso di fare cosa ci piaceva e iniziato a fare quel che si doveva. E se non mettiamo più passione in un lavoro, come possiamo sperare di trasmetterla?

In molti aspetti della nostra vita abbiamo ormai accantonato l’idea del gioco: la dimensione ludica è un codice fondamentale per leggere lo spazio oltre il funzionalismo, rendendolo giocabile ed interagibile. Il gioco ha una funzione sociale e pedagogica fondamentale in quanto atto libero e disinteressato che crea e rafforza i legami sociali e culturali.

Eppure tuttora, complice l’insopportabile giovanilismo delle startup, consideriamo il gioco come troppo infantile per avere un’applicazione professionale. In fase creativa il gioco può essere elemento liberatorio, privo di vincoli, che porta alla riappropriazione dello spazio e alla sua ri-creazione; ma anche in ottica lavorativa la dimensione ludica può favorire il coinvolgimento e favorire la partecipazione a processi valutativi e decisionali.

Se il lavoro diventa un aspetto totalizzante delle nostre vite, renderlo piacevole diventa quasi una necessità di sopravvivenza. Provare a divertirsi nel fare ciò che dobbiamo può essere la chiave per trovare un equilibrio tra sfera professionale e personale.

E per ricordarci che l’entusiasmo è il più contagioso dei virus.

 

 

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